La Paz è forse l’unica città, tra tutte quelle visitate, che meriterebbe un’esplorazione un po’ più approfondita.
Ci sono da vedere chiese, mercati, quartieri. Anche la lotta delle cholita.
La città si è sviluppata su vari colli e questo rende problematico camminare.
Aggiungici che siamo a quasi 4000 metri e si capisce perché non è facile passeggiare per questa città. In più, il traffico rende la poca aria che c’è irrespirabile.
Ma, come per le altre città, ho esplorato poco. Giusto nelle vicinanze dell’ostello, cercando qualcosa da mangiare.
All’inizio del viaggio, quando pensavo a La Paz pensavo ad una cosa sola: scendere in bici per la Death Road.
Fino a pochi anni fa era l’unica via per andare da La Paz a Coroico, ed era una strada non asfaltata, che si sviluppa lungo la montagna senza alcuna protezione. Per questo negli anni ci sono stati molto incidenti mortali.
Da qualche anno c’è una strada nuova e più sicura tra La Paz e Coroico, e la Death Road è utilizzata praticamente solo per motivi turistici dai ciclisti.
Ma durante il viaggio ho incontrato un po’ di febbre che mi parlava di un’altra cosa da fare a La Paz: raggiungere la cima dell’Huayna Potosí, una montagna alta 6088 metri.
Siccome non è che uno raggiunge i 6mila metri tutti i giorni, quindi visto che qui è possibile, ho deciso di provarci.
Nella mia testa avrei voluto fare la Death Road un giorno e l’Huayna Potosí il giorno dopo.
In agenzia mi hanno suggerito di fare prima la montagna perché in bici si scende sotto i 2 mila metri e poi avrei dovuto aspettare qualche giorno per potermi riabituare all’altitudine.
Bene, decido di fare prima la scalata, quando sono a La Paz da solo due giorni.
Secondo me possono bastare come periodo di acclimatazione.
Si parte la mattina alle 9, dopo aver provato l’attrezzatura in agenzia.
In auto arriviamo al rifugio da dove partono le varie escursioni.
Siamo a 4700 metri.
Il tempo di un pranzo veloce, zuppa e un piatto di carne, e si inizia.
Con lo zainone sulle spalle, pieno dell’attrezzatura necessaria, partiamo.
Per l’escursione è obbligatorio essere accompagnati da una guida, ed ogni guida può seguire al massimo due persone.
Il mio compagno di viaggio è Guillermo, un uruguaiano di una cinquantina d’anni. Dice di aver fatto già altre scalate, ma massimo 5000 metri. Quando di dico che io al massimo ho scalato il vulcano in Cile, mi guarda come se dovessi essergli d’impiccio.
Vabbè.
La prima tappa da raggiungere è il rifugio che sta a 5190 metri.
Non ho fatto caso a quanto tempo ci abbiamo messo a raggiungerlo, ma con quello zaino pesante sulle spalle mi è sembrato un tempo infinito.
Guillermo ha preferito pagare affinché lo zainone fosse portato su da un ragazzo, in modo da salire più leggero.
Senza zaino, con altre montagne scalate, il nostro eroe uruguaiano ha fatto fatica a salire.
Io ho fatto fatica, soprattutto a livello respiratorio, ma sono stato sempre attaccato a Teo, la nostra guida.
Guillermo ce lo siamo pian piano perso per strada.
Noi arriviamo al Campo Alto, Guillermo lo fa, credo, mezz’ora dopo.
Mal di testa, freddo, poca fame: altitude sickness.
É una cosa che succede, non tutti ce la fanno a stare a determinate altezze.
Guillermo è uno di questi.
Arrivato al rifugio, si mette sul letto, nel sacco a pelo e ciao ciao. Ne abbiamo perso uno.
Salirò solo io con Teo.
Ceniamo alle 17, poi a nanna, perché per raggiungere la vetta partiremo all’una di notte.
Si parte così presto perché bisogna arrivare in cima al massimo subito dopo l’alba perché altrimenti la temperatura si alza troppo e la neve diventa soffice e si corre il rischio di provocare (ed essere vittima di) valanghe.
All’una partiamo, con lo zainetto in spalla con solo acqua e ramponi per il ghiaccio.
In tutto saremo 6/7 di gruppi che partono per la cima.
Io e Teo siamo i primi ad uscire.
Fuori è buio pesto, fa freddo.
Ma il cielo è limpido e si vedono le stelle. Sullo sfondo le luci di La Paz colorano un po’ il cielo.
Con la lampadina sul casco si riescono a vedere solo i piedi di chi ti sta di fronte.
All’inizio io e Teo procediamo spediti, staccando gli altri gruppi. Io però inizio ad avere qualche problema a respirare.
Arrivati al ghiaccio mettiamo i ramponi.
Tutti i gruppi sono nuovamente compattati.
Anche stavolta io e Teo partiamo per primi, e siamo in testa a quattro gruppi.
Faccio sempre più fatica a respirare e di conseguenza a camminare.
Facciamo brevi pausa, soprattutto per bere o mangiare qualcosa e recuperare un po’ di energia.
Respirare diventa sempre più difficile.
Piano piano perdiamo terreno di altri gruppi.
Da primi siamo ultimi, e vedo le loro luci allontanarsi.
Ad un certo punto però, non so per quale motivo, inizio a stare meglio e piano piano iniziamo a recuperare terreno.
Raggiungiamo gli altri gruppi.
Li superiamo.
Siamo di nuovo in testa.
Non è una gara, ma arrivare per primi è sicuramente più soddisfacente.
Riprendo ad avere problemi a respirare.
Faccio sempre più fatica ma non mollo. Ance perché Teo è lì ad incoraggiarmi.
“È tutta una questione di testa. Serve motivazione”
Continua a ripeterlo.
Io un po’ vorrei mandarlo a cagare, un po’ sto ad ascoltarlo.
E riprendiamo la scalata.
5400.
5500.
5600.
Ogni volta che ci fermiamo per bere e per respirare con più calma chiedo a che altezza stiamo.
Almeno mi rendo conto che tutta questa fatica serve ad avvicinarmi un po’ di più alla vetta.
Saliamo, è sempre buio.
Passiamo vicino a grotte di ghiaccio.
Scaliamo una breve parete ghiacciata.
Camminiamo vicino a quello che resta di una valanga.
Piano piano, sempre più su.
Sempre con difficoltà respiratorie.
Ma niente mal di testa o crampi. Per me niente altitude sickness, e questo mi rincuora.
Ormai abbiamo staccato tutti.
Io e Teo ci avviciniamo da soli verso la cima.
L’ultimo pezzo è una camminata su una cresta.
Trenta centimetri di spazio dove mettere i piedi.
A destra e a sinistra si cade. Con la neve soffice deve essere molto difficile fare questo pezzo.
Finisce la cresta e la cima è lì a pochi passi.
Il sole ha iniziato a fare capolino.
Faccio gli ultimi passi e mi siedo sulla cima.
Ce l’ho fatta, sono arrivato a 6088 metri.
Per 2 o 3 minuti in cima ci siamo solo io e Teo.
L’alba è bellissima.
Respiro meglio.
Iniziano ad arrivare gli altri gruppi.
Si complimentano con me per essere stato il primo.
Ci allontaniamo dalla cima, ormai lì c’è confusione.
Iniziamo la discesa, molto ma molto più semplice.
Finalmente con il sole riesco a vedere da dove siamo passati.
Neve, montagne, nuvole, stalattiti.
Siamo circondati dallo spettacolo della natura, che solo ora posso godere.
Dopo mille fermate a fare fotografie, arriviamo al Campo Alto.
Sono sudatissimo, stanchissimo, contentissimo.
Non avrei mai pensato di arrivare oltre i 6000 metri.
Non so quante volte, durante una crisi respiratoria, ho pensato di mollare. Però Teo mi ha sempre aiutato e se sono arrivato in cima è soprattutto merito suo.
Dopo un po’ ripartiamo, zainone in spalla, per raggiungere il rifugio alla base.
Sarà stata la stanchezza, ma quest’ultimo pezzo, rispetto al giorno prima, mi è sembrato quello più difficile.
Arrivo al rifugio esausto e lì c’è Guillermo bello fresco. Il mattino è tornato giù ed il cambio di altitudine gli ha fatto bene.
Mangiamo una zuppa calda e aspettiamo la macchina che ci avrebbe riportati a La Paz.
Ho addosso vestiti sudati e non ho niente da mettermi. Spero solo di non ammalarmi.
Arriva la macchina, partiamo e finalmente siamo a La Paz.
Vado in ostello, doccia calda, vestiti puliti, vado sotto le coperte.
Ho un po’ freddo, sono stanchissimo.
Il giorno dopo, fortunatamente, mi sento meglio. Potrei anche andare in agenzia per prenotare il giro sulla Death Road.
Ci penso.
Sono rilassatissimo, quasi zen. Non ho bisogno di adrenalina.
Ripenso a quello fatto il giorno prima e sono soddisfatto. Non voglio fare niente per un po’.
La Death Road la percorrerò un’altra volta.
Faccio i bagagli e vado al terminal di pullman.
Salgo sul prima pullman per Copacabana.
Il mio visto scade tra tre giorni, li passerò qui a non fare niente.
Piove, ma non mi interessa.
Mangerò solo trote, finalmente qualche sapore differente.
Se domani c’è bel tempo, vado a visitare l’isola del sole e l’isola della Luna.
Se no, pace.
5 risposte a “oltreseimila”
Bravo Tan!
Grandissimo Tan…
Mister 6000!!!!
Un Grande!!!!!
Ma l hai fatta la pipì sulla vetta per lasciare il tuo segno?
Faceva troppo freddo